Tutto iniziò una sera di metà gennaio 2011, fuori nevicava e
la neve aveva superato i 40 centimetri, il che a Castel San Pietro non è così
usuale. La sera prima un’insolita degustazione di abbinamento eno letterario dall'amico Claudio Driol di Canto 31, mi
aveva lasciato sul tavolo una bottiglia aperta di Dinavo, non fu amore a prima
vista, ma oggi non posso più fare a meno di bermene una bottiglia di tanto in
tanto. Ho usato la parola bere perché questo vino è da bere, non da degustare,
va goduto per il piacere che da, non ammirato per la “perfezione”. E’ un vino
insolito, certamente non per tutti, ma di un fascino unico che non lascia
indifferenti, un po’ come una donna, che non sarà perfetta, non sarà mai una
modella, o per un paio di chili in più, o per un dente non allineato, ma che
con fascino ed amorevolezza ti fa girare la testa perdutamente. D’altronde le
modelle vanno bene per una notte, le donne, quelle vere per tutta la vita.
Questo è il Dinavolo.
Ma andiamo con ordine, il Dinavolo bevuto quest’oggi è un
vino da tavola nella sua versione 2008 prodotto da Denavolo, l’azienda di
proprietà di Jacopo e Giulio Armani, quest’ultimo già ecclettico enologo de La
Stoppa, e difatti il Denavolo può essere definito la versione “rustica”
dell’Ageno. Non fatevi ingannare dalla definizione di vino da tavola, perché in
questo caso non è indice di bassa qualità ma è un vero e proprio suggerimento,
è un vino da bersi a tavola, d’altronde dove va bevuto un vino se non a tavola?
Il territorio è la Val di Trebbia, Travo per la precisione in
provincia di Piacenza ad un’altezza di 500 mt s.l.m. e le vigne crescono su di
un terreno chiaro con molto calcare sciolto e scheletro e sono condotte in assoluto equilibrio
naturalistico con l’assoluta mancanza di chimica. Anche in cantina c’è una
grande attenzione, lunga macerazione del mosto sulle bucce (difatti questo vino
è un “Orange wine”, di quelli tosti ed estremi) uso dei soli lieviti indigeni
assenza di solfiti aggiunti e nessuna chiarifica.
Il Denavolo 2008 è assemblato con percentuali variabili di
anno in anno di malvasia di Candia, Ortrugo e marsenne più altre uve locali,
tutte per l’appunto vinificate in rosso.
La bottiglia è una borgognotta pesante, non so perché ma i
pesi delle bottiglie dei vini naturali o meglio dei vini culturali è sempre maggiore
di quelli convenzionali, mentre l’etichetta è in un elegante bianco satinato
con scritte altrettanto eleganti in blu.
Alla mescita si è subito straniti, il colore è pazzesco,
arancione, arancione davvero, meglio ancora, ambra brillante e luminoso, quasi
da passito
Basta mettere il naso nel calice per essere ancor più
straniti. Profumi intensi e persistenti, terziari a go go. In partenza è
presente anche un po’ di volatile, di sensazioni smaltate, ma qualche
roteazione del calice e si perfeziona, profumi di frutta a pasta gialla matura,
albicocca e pesca, ma anche di frutta essiccata quasi di fico che non virano al
dolce, anzi si indirizzano sul mediterraneo, salvia timo maggiorana, un po’ di
rosmarino per poi chiudere nuovamente su iodio e zafferano. Profumi che comunque
sono molto dinamici cambiando e continuando a cambiare nel tempo. Alche in
bocca lascia straniti, la sensazione è di un vino intenso e persistente,
particolarmente asciutto, asciugato da un tannino molto evidente e presente,
contrastato da un’inebriante acidità ben integrata. Notevole anche la sapidità
che è un vero è proprio mix di minerale e salinità, mentre il corpo è si
possente ma non potente, alleggerito da un ottima beva, ma quel che più
sorprende è l’altissima personalità ed il forte carattere. Difficile definirlo
morbido, in questo momento, a sei anni
dalla vendemmia è ancora spostato sulle sostanze dure, il tempo lo ammorbidirà.
Certo, è un vino difficile, una sorta di ritorno alle origini, ma di sicuro
appagamento anche per la sua evidente succosità. In poche parole un vino che
ricorda da vicino quello del contadino di tanti anni fa, ma prodotto con
l’integrazione delle conoscenze attuali. Conoscenze che non modificiano il
risultato finale, per una volta davvero la sola somma del territorio più il
vitigno più l’annata più l’abilità umana.
Consiglio di
degustare il Dinavolo in api calici a tulipano, ed ad una temperatura di
cantina, 14° 15° gradi, non meno, per non rendere aggressivo il tannino e per
armonizzarlo nei profumi.
Difficile l’abbinamento, in quanto la particolarità del vino
richiede cibi particolari, fagiano, oca e anatra, ma anche rane in umido e
soprattutto anguilla ai ferri. Perfetto anche con formaggi di media stagionatura
e di capra o misti, è indicato anche da bersi da solo dopo cena sorseggiandolo
piano quasi fosse un whiskey.
Io l’ho abbinato ad una tagliata di petto d’anatra al forno,
abbinamento che mi ha soddisfatto appieno il mix di tannino e di acidità
contrastava bene la succosità della carne e il corpo del vino era appropriato
all’intensità della carne d’anatra.
Regge meravigliosamente il calice del giorno dopo, anzi
forse ancor meglio, la lunga apertura si addice a questa tipologia di vini,
rendendoli ancor più gradevoli. In questo caso l’ho abbinato al “resto”
dell’anatra cotta però al forno.
Vino ideale da bersi con amici appassionati di vini ed in
grado di apprezzare le caratteristiche insolite ed affascianti di questo vino,
non nato per piacere ma per dare piacere.
L’abbinamento migliore rimane però quello di condividerne un
calice o due con la persona amata