Colmi diVino
eno racconti di eno serate eno logiche
lunedì 25 novembre 2019
A new idea, a new project
Colmi diVino è in fase di mutazione, dopo mesi, anni, presto prestissimo ci saranno delle novità, sarà quasi una rivoluzione. I contenuti rimarranno, o meglio si modificheranno sempre rimanendo all'interno del vino. Sicuramente cambierà la "forma" di fruirne, sperando di creare sempre curiosità in tutti voi, che mi avete seguito in questo blog.
giovedì 25 febbraio 2016
Giovannini... from Imola with Albana e Sangiovese!
Capita a volte che percorri centinaia di chilometri od ore
di macchina per conoscere un azienda vinicola, e quella che hai vicino a casa
non vai mai. Ho rimediato, 10 minuti d’auto e sono Imola, più precisamente a
Linaro, lascio la strada principale e m’inerpico su una piccola collinetta ma
che dalla strada che la percorre, sembra chissà dove per quanto è dissestata.
Nel cortile mi accoglie Jacopo Giovannini, giovane
condottiero dell’omonima azienda che da diverso tempo sta facendo parlare di se
sempre di più. Attorno alla cantina ci sono i vigneti delle varietà rosse,
cabernet sauvignon ma soprattutto l’adorato Sangiovese, terreni pieni e duri,
nessun impianto d’irrigazione ma con sesti d’impianto larghi da permettere un
agevole sovescio che viene praticato regolarmente. Nel secondo corpo aziendale
invece le bacche bianche con in primis l’Albana, qui siamo più in alto, attorno
ai 300 msl.
Grande attenzione agli interventi ad ai particolari in
vigna, tanto che il rame viene sospeso già alla fioritura. L’uso del legno in
cantina è rilegato a qualche mensola, per il resto solo acciaio termo
controllato per le vinificazioni e l’amato cemento per le maturazioni.
Jacopo mi ha preparato due interessantissime verticali dei
due prodotti più rappresentativi dell’azienda l’albana GioJa e il Sangiovese
GioGiò, per la precisone il Romagna Albana DOCG secco il GioJa 100% albana e il Romagna Sangiovese Doc Superiore GioGiò 100% Sangiovese.
Il GioJa (visto il percorso nel tempo, tralascio tutta la
denominazione ufficiale) prende il nome da GIOvannini Jacopo, ed è la sua
interpretazione del vitigno, la sua idea di trasformazione dell’uva in vino.
Il primo assaggio è della 2014, annata fredda che si
ripercuote nel vino rendendolo più sottile ed affilato ma con un’impronta
fruttata e profumata chiara.
Passiamo poi al 2012, ancora senza etichetta giacché non in
commercio, per Jacopo ha ancora bisogno di affinamento. L’annata calda ha
regalato uve perfette e Jacopo si è divertito a macerare di più la
vinificazione per un’estrazione più marcata, cosa che ha reso il vino molto più
intenso e polposo e dal colore giallo dorato, sensazioni di frutta matura ed
agrumata ma con un gioco di tannino e freschezza molto elegante, piacevole.
Ricco di saporita sapidità, forse l’interpretazione che più mi è piaciuta.
La 2007, anch’essa annata calda, ha mantenuto una bella
freschezza ed evidenzia un frutto maturo che s’intreccia con note da
idrocarburo d’evoluzione che danno fascino e carattere. In bocca entra morbido,
pieno e ricco ma con un’acidità ancora intensa e piacevole. E’ la bottiglia che
mi sono portato a casa.
Chiudiamo con la 2003, annata iper calda e a 14 anni di
distanza mi aspettavo un vino cotto e finito, invece ha ancora un suo perché,
evidenti note terziarie d’evoluzione ma la bocca è viva articolata e sapida. I
bianchi non possono invecchiare? L’albana va bevuta giovane? Fate un salto da
Giovannini e poi riconsiderate il tutto.
Siamo poi passati ad un’altra verticale, stavolta sul
sangiovese, anch’esso in assoluta purezza, così come da imprinting di Jacopo il
Romagna Sangiovese DOC Superiore GioGiò, nome che deriva dal padre Giorgio, ma
andiamo con ordine.
La prima annata assaggiata è la 2014, la prima in cui ha smesso di mettere rame dalla fioritura motivo
per cui necessita di tempo per aprirsi. Frutto non ancora definito, bocca tenue
ma intensa, sottile e corpo sfuggente. Risente dell’annata fredda e difficile,
Jacopo ha preferito uscire lo stesso soprattutto per raccontare un percorso
integrale storico, in cui oltre a belle annate ci sono quelle più povere. Ma
averne di questi vini in queste annate.
La 2013 è stata un’annata più equilibrata e mediterranea si sente il
frutto rosso maturo completo, in bocca è armonioso tannino spigoloso ma mai
scorbutico. Esuberante e gioviale nella piacevole beva.
Siamo poi passati alla mia preferita, quella in cui ho trovato più svolto e completo il vino, la 2010
in cui naso di terziario la fa da padrona, con leggere spezie orientali e
pepate. Al bellissimo naso ha corrisposto una bocca setosa ed armoniosa in cui
i 15° di alcool sono ben integrati. Dritto, equilibrato, fresco e tannino
affilato. Note ematiche e agrumate nel lungo finale.
Abbiamo poi continuato con la 2006 in cui presentava un naso ancora
pieno e vigoroso, asciutto ma scattante in bocca, dotato ancora di discreta
acidità che gli dava vivacità.
Nella versione 2005 era vivo di naso evoluto sul terziario, frutto
macerato succoso, manca un pelo di struttura risentendo abbastanza della forte
e continuativa pioggia in vendemmia. Abbiamo poi finito con un vino di 12 anni
fa, la 2004 in cui si chiamava semplicemente Giò ed è vecchia etichetta. Il
naso segna un po’ il passo, si sentono gli anni alle spalle, pardon, in
bottiglia, il frutto ha lasciato il passo alle note terziarie, in bocca invece
è ancora vivo ed armonioso.
Infine poggiato l’ultimo calice allo, Jacopo mi dice testuali parole:
“ora andiamo ad aprire il cassetto della biancheria intima delle donne”
ovviamente lo accompagno… abbiamo assaggiato le prime vasche della 2015,
l’Albana GioJa ha ancora sentori vinosi, ma la stoffa c’è tutta, frutto giallo
pieno e sodo, corposo e con un affascinante attacco leggermente tannico. Anche
il GioGiò si ri riempie di materia dopo l’avaro 2014, corpo e struttura di
assoluto livello, per ora un frutto chiarissimo e marcato che andrà ad
evoluirsi e perfezionarsi in cemento, dove passerà un anno prima di affinarsi
un altro anno ancora in bottiglia.
Concludendo direi un bel percorso nel tempo di un giovane produttore
trentacinquenne ma con un esperienza ormai decennale che sta proseguendo nella
sua missione, cioè la volontà di trasformare il frutto uva nel nettare vino
rimanendo fedeli il più possibile al territorio e all’autenticità del vitigno
ed dell’annata. Infine ultima nota, che ho apprezzato davvero tanto che da
questi giorni sarà presente sulle sue bottiglie l’etichetta “Vignaioli
Artigiani Romagnoli”, piccolo gruppo di “autentici e rustici” produttori made
in Romagna.
giovedì 10 settembre 2015
Champagne, la prima volta
La mia
prima volta. Ebbene si un piccolo "randezvous" adatto solo ai minori.
Ovviamente
niente luci rosse, solo un po’ di alcool. Finora,
sullo champagne,
ho solo letto ed ascoltato
altrui esperienze che in certo senso mi hanno
fatto
sentire un appassionato di serie B. Così,
spinto da un'estate lavorativamente
anomala
che mi ha proposto solo 2 settimane di ferie
peraltro separate, ho
preso lamia auto e
imboccato l'autostrada direzione Epernay,
cuore dello
Champagne, e dopo 1076 km ecco la mia prima volta. Se i primi 800 km mi hanno
messo fisicamente alla prova, interamente
sotto una pioggia battente
novembrina, gli
ultimi km sono stati devastanti, non ho visto un vigneto, niente
di niente, facendomi
seriamente preoccupare. Scarico l'auto e
imposto il GPS
per la prima visita... ed eccomi
immerso in una marea di vigneti fin dove
l'occhio può arrivare. Sono a Sacy, in piena
Montagna de Reims, culla del Pinot
Nero, I
gentilissimi Hervieux mi compagnano in giro
per la loro tenuta,
assaggio l'uva prossima alla vendemmia e con mia sorpresa scopro che
loro
prediligono in gran misura lo chardonnay, cosa che si ripeterà nel proseguo. L’uva
è
pronta, almeno mi pare dalla dolcezza che ne
percepisco, ma sarà il Comitato
a dare il via
ufficiale; prima di quella data non si può
raccogliere. Quest’anno
prevista dall'8
settembre.
Dopo? Ognuno fa quel che vuole. Ho
assaggiato
l’intera produzione, vini precisi
diretti e piacevoli e usano molto il
“Vintage”,
per trasmettere il più possibile l’idea
dell’annata e del territorio. Su tutti mi ha
colpito la semplicità del
Brut Chardonnay
2013, fresco nella frutta acerba, leggermente
agrumato e dal
perlage insistente.
pranzo sono ad
Avize, comune
Gran Cru de “La Cote des blancs”,
una ventina
di
chilometri
perpendicolari d
Epernay, qua lo
chardonnay la fa da padrona,
difatti da Franck Bonville, producono solo chardonnay.
Compra un poco di Pinot
Nero, che utilizza solo per il Rosè, che da loro, così come la
maggior parte
producono aggiungendo del
vino rosso al mosto. La cantina è molto bella i sotterranei
impressionanti per struttura e
articolazione. Tra gli assaggi mi ha colpito il
Voyes 2009, un Gran Cru con 60 mesi sui lieviti che presentava un naso
complesso, intrigante e armonioso, anche in bocca la complessità
era intensa e
articolata. Estremamente lungo e ricco di sostanza e sapore.
Il
tempo di riordinare le idee e con la macchina attraverso un’infinità di ettari
vitati, ognuno di
loro porta una targa sulla proprietà ed è un
susseguirsi di
nomi che scaldano la pelle e
stimolano l’acquolina, fin che non arrivo a
Trepail. Nuovamente nella “Montagna di Reims” patria del Pinot Nero. Anche
stavolta trovo
Adrien Pascal piccolo artigiano che predilige lo chardonnay, ne
ha 5 ettari che lavora con
grande amore e attenzione e qualcosa di Pinot Nero.
Un giovane che si sta avviando ora, ma
la batteria di vino che mi fa assaggiare
mi
danno sussulto. Il suo “Le Gran R” è a dir poco “strampalato” di una bontà
impressionante. Una cuvée fatta da 50% chardonnay e 50% Pinot nero, entrambi
del 2008 e questo solo per il
50% del vino, il restante è il “vin de reserve”
fatto da un altro 50% di assemblaggio del 2007, 30% del 2006 e 20% del 2005 e
con solo
4gr/l di zucchero. Un lavoraccio metterlo
insieme, ma il risultato è strabiliante,
uno
champagne, si opulento, ma un naso intenso,
complesso ed evoluto, dove il
lievito integrale
la fa da padrona, unito a intriganti sentori
agrumati dove spicca
un non nulla di cedro e
un brivido di pepe di, in bocca è molto
equilibrato
nessuna virgola fuori posto, perlage infinito e setoso così come il lunghissimo
sapido finale.
sono a Pierry, in
sostanza una
continuazione di
Epernay e mi
fermo
da Lenique Machael e Alexandre, 7 ettari sparsi nella Vallée de la Marne dove
si
coltivano tutti e 3 i classici vitigni.
Difatti gli
champagne
prodotti hanno
il
più classico
assemblaggio e
sono un po’ più
rustici e meno
aristocratici,
pur mantenendo un fascino unico. L’intera gamma è incentrata sulla semplicità
di beva e gradevolezza essenziale, tra tutti mi è
piaciuto il Secret de
Famille, un assemblaggio di due Gran Cru, quello di Buzy con il Pinot
Nero
(30%) e quello di Menil S. Orger con lo
chardonnay (70%) ricco di fiori di
campo
bianchi e gialli, verticale nell’acidità
prorompente e dal frutto
leggermente verde e
finale sapido.
Pochi
chilometri e arrivo a Buzy, in una maison media Gaston Cliquet, 23 ettari, ma pur
sempre Récoltant Manipulant, cioè un’azienda che elabora autonomamente solo uve
da poro coltivate.
Nulla
è lasciato al caso, 1,5 ettari come
giardino aziendale solo per esperimenti,
prove e tentativi.
La
cantina è affascinante, una passeggiata
sotto terra affasciante. Tra gli
innumerevoli
assaggi lo Special Club 2007 mi colpisce per
struttura generale,
naso armonioso e bocca di un’armonia unica, nulla è poco, nulla è troppo, un
gioco di emozioni leggermente agrumate
molto piacevoli, dove acidità e sapidità
vanno a braccetto. Finisco la giornata
un po’ più
lontano, a Berges Les Vertus, sono
nuovamente all’interno della Cote
des Blanc
ma ai piedi della Montagna di Reims presso una nuova realtà, Perrox
Batteau 25.000 bottiglie a fronte di 5 ettari per il 95% vitati in
chardonnay.
Stile preciso e chiaro, i vini
escono solo dopo aver passato 36 mesi sui
lieviti. Da loro mi ha colpito il Nature, una
cuvée di 2006 e 2007 non dosato e
di solo
chardonnay, un blanc de blanc dritto verticale a tratti invasivo con
una forte mineralità
affascinante e di una lunghezza pressoché
Infinita.
L’ultimo
giorno di visite è un vero tour de force sotto la pioggia e col freddo. Siamo a
fine
agosto, ma il termometro alle 9 di mattina
arriva a 11 gradi e durante il
giorno non supera i 15, sempre sotto una pioggia battente. Arrivo da Jacquesson,
un grande nome, una garanzia, la cantina è molto bella e mi colpisce che
usino
ancora due storiche presse quadrate,
comandate pneumaticamente e stoppate ai
400 kg di pressione, nonostante il quasi
milione di bottiglie prodotte. Tra i
tanti assaggi alcuni “mono zone” riguardano i Gran Cru
posseduti nei vari
comuni e nelle varie zone,
difatti oltre ai consueti champagne che riportano il
numero dell’assemblaggio (739 è il nuovo in uscita), mi ha colpito il Cham Cain
2005, un Gran Cru di Avize e 100% di chardonnay, dal
naso sussurrato che non si
pronuncia
nell’immediato, ma che sprigiona un bouquet
piacevole, al palato è
intenso e piacevole ma
soprattutto armonioso.
vignaiolo
estroverso e per
certi versi
innovativo,
bottiglie stilisticamente
ricercate, tappo
fermato da una
graffetta al posto
della classica
gabbietta, ma
quello che mi
colpisce di più
sono le prove su
anfore e piccoli
otri di cemento,
oltre che all’uso
della barrique. Per questi
dovrò ripassare quando saranno pronti. Mi toccherà. Tra tutti mi colpisce l’Aragonne
2004, 75% di Pinot Nero, 25% di chardonnay e 120 mesi, 10 anni sui lieviti. Il
vino è evoluto
nell’integralità dei lieviti, note di corn flakes
nette, così
come avvertibile ma piacevole il
chiaro uso del legno. Nel pomeriggio arrivo ad un nome storico, uno
di quelli che hanno fatto
la storia dello champagne Vueve Cliquot, la
cui
vedova ha inventato il remuage, seppur
ancora sul tavolo. Il giro nella cantina
sotterranea è spettacolare, affascinante ed
impressionante. 24 chilometri di
labirinti
sotterranei dove riposando un numero
pressoché inscrivibile di
bottiglie. L’assaggio
riguarda La Grande Dame, come dire: ti piace
vincere
facile, almeno così mi fanno notare su Facebook, ma come non si può raccontare
un vino che rasenta la perfezione 61% pino nero e saldo di chardonnay, 10 anni
di lieviti, remuage manuale (hanno 2 persone che ogni giorno
“girano 50.000
bottiglie…) nonostante un
numero imprecisato (segreto aziendale) di
bottiglie.
Naso esotico, evoluto e intenso. In
bocca è un susseguirsi di emozioni e
palpitazioni
struttura acidità minerale e frutto
in perfetto equilibrio, a dir poco iper
elegante.
percorso con una visita privata da
Charles
Heidsieck, un
altro big del
settore. Avere il
privilegio di una
visita privata, di
passeggiare negli 8
chilometri sotto Reims dove
riposano diversi milioni di bottiglie in stanze a
forma di bottiglia (spero si capisca dalle
foto, ndr) non è
cosa da tutti i
giorni, ed è un’esperienza unica. Così come
unico è assaggiare la produzione in
compagnia dello Chef de Cave, Cyril Brun, chiamato in
servizio dalle ferie per colpa mia. Grazie
Slow
Food, molto del merito è tuo. Tra gli assaggi mi ha colpito il Brut
Reserve, il vino d’ingresso,
ma con 72 mesi sui lieviti. La costruzione
tutt’altro che banale, 60% vino dell’annata con 33% dei vari vitigni (Pinot
nero, chardonnay e
pinot meunier), il 40% vin de reserve con pinot nero e chardonnay
di anni precedenti anche 10 anni d’invecchiamento.
Fresco
nella frutta soda, croccante e succosa, inteso e persistente in bocca dove
evidenzia un finale intrigante e sapido. Non posso non raccontarvi anche il
Blanc de Millenairs 1995, 20 anni sui lieviti, fermentato e rifermentato sui
suoi lieviti. Cuvée di 5 cru diverse, 4 Gran Cru (Avize, Cremant, Ay e Mesnil)
e 1 Premier Cru (Vertus) dall’eleganza infinita, morbidezza intrinseca. Acidità
composta che gioca sulla finezza ed eleganza. Scorrevole e sapido lascia una
bocca sussurrata e piacevolissima, come la sensazione che lascia un bacio
rubato. Chiudendo che dire, Champagne, non aspetterò altri 45 anni prima di
tornare.mercoledì 20 maggio 2015
Chirofiore 2012 Toscana Bianco IGT di Tunia
Gusto Nudo di Bologna è da sempre una manifestazione
particolare. Questo perché ha sempre un qualcosa che non va, negli anni passati
dalla location troppo alternativa con skateboard a sfrecciarti di fianco,
temperature impossibili . Quest’anno ad esempio aveva si una location
bellissima in Bologna, il Parco Cavaticcio, ma i banchetti erano lasciati al
caso senza nessuna indicazione di che azienda ci fosse dietro. Dal lato positivo
invece Gusto Nudo ha il vantaggio di selezionare i cosiddetti “vignaioli eretici”,
coloro che escono dai soliti schemi di convenzionalità, così che mi sono deciso
e recato a farci un giro.
Sarò onesto fino in fondo, mentre cercavo di orientarmi tra
i banchi cercando di capire chi fosse chi, ho intravisto una bella ragazza
bionda occhi azzurri dietro ad un banco, si questo è stato il primo motivo che
mi ha spinto verso Tunia, poi ho scoperto chi erano e il loro vino. Due
chiacchere iniziali sul loro territorio e su quella che Chiara Innocenti e la
sua amica da una vita Francesca Di Benedetto chiamano la loro pazzia, infatti,
senza tradizione familiare alle spalle, decidono nel 2008 di catapultarsi in
questo progetto, entrano da subito nel circuito di VinNatur e nel pieno del
loro territorio sfruttando e convertendolo con vigneti tipici. Mentre
chiacchieriamo mi versa un primo sorso del loroChirofiore 2012 Toscana Bianco IGT, lo osservo e
chiaramente è un orange wine, ma è la storia che c’è dietro che mi conquista.
Il vino è un blend di Trebbiano all’70% e vermentino 30%, e fin qui è semplice,
ma la particolarità è che sono frutto di ben 4 vendemmie distinte. La prima
vendemmia del trebbiano è precoce, giusto per dare un po’ di acidità in più, la
seconda a maturazione del trebbiano, a cui si affianca la terza vendemmia,
quella a maturazione del Vermentino. Chiude la 4 vendemmia cioè quella del
trebbiano surmaturo, quasi appassito a dare complessità e morbidezza. In poche
parole un lavoraccio a cui segue una macerazione non estrema, e che varia a
seconda della vendemmia, la prima non fa macerazione ma dalla seconda invece ne
fa più o meno una settimana. La fermentazione è sulle fecce fini per 12 mesi ed
a vendemmie separate, ma tutte in acciaio. Con una storia così non posso non
farmi dare una bottiglia. La bottiglia è la classica bordolese pesante e
l’etichetta sobria ed elegante nel suo beige anticato. Stappo la bottiglia e mi
servo il calce, il colore è aranciato carico ma limpido e luminoso, in naso è
un bouquet in continuo cambiamento. Da subito frutta matura ed esotica, mango
pesca ed albicocca la fanno da padrona. Vira poi nelle note balsamiche di
macchia mediterranea con timo maggiorana e salvia belli evidenti per chiudere
poi con note miste di panna montata e zafferano. In bocca risulta grasso e leggermente
glicerico. La vendemmia tardiva gli dona morbidezza e una sensazione dolce che
lo indirizza nel “piacionismo”, ma è un impressione che sfuma subito, quando
poi la bocca viene asciugata da un tannino robusto seppur vellutato e delicato
a cui segue una sostenuta acidità che gli dona una goduriosa bevibilità. Si
capisce fin dal primo sorso che non manca certamente carattere e corpo e struttura
nsono ella media della tipologia, mentre il finale è particolarmente lungo
durante il quale è evidente una sapidità di netto tratto minerale. La
caratteristica che più mi ha colpito è che il Chiarofiore esce quanto basta dai
canoni consueti per avere un ottimo carattere di base.
Consiglio di degustare questo Chiarofiore ad una temperatura
di cantina, 14-15°, non lo raffredderei troppi onde evitare di appiattirgli i
profumi. Mentre come abbinamento oltre che essere inconsueti come con la mia
anguilla, che per altro ci sta divinamente, si po’ abbinare anche a formaggi di
media e buona stagionatura o con inclinazione blu. Con un bel erborinato di
capra tarerete molte soddisfazioni, così come con cacciagione di piuma cotti al
forno in salse agrodolci, come con uvetta o mele. Regge molto bene anche il
calice del giorno dopo, questa volta abbinato ad un buon risotto agli asparagi,
e se caricate con del parmigiano in mantecatura l’abbinamento ci sta eccome.
Ricordate che l’abbinamento migliore rimane quello di condividerne un calice
con la persona amata.
venerdì 24 aprile 2015
Dagamò Barbera Emilia IGT 2013 Al di là del Fiume
A volte una semplice bottiglia ti cambia l’umore. Sono
arrivato a casa stanco morto dopo una trasferta di lavoro di quasi 14 ore di
tutto avevo voglia tranne che di cucinare. Accendo il microonde e ci infilo la
coscia di pollo della mensa rimasta, un po’ di insalata e la cena è servita.
Cosa ci bevo? Dopo 6 ore di furgone un bel calice ci sta. Recupero una
bottiglia di Dagamò Barbera Emilia IGT 2013 di Al di là del Fiume, piccola azienda
dell’alto appennino bolognese. Siamo difatti a Marzabotto, ho visitato l’azienda,
sita all’interno del Parco Monte Sole, la scorsa estate, ma sono passato
qualche giorno dopo che una violenta tempesta aveva devastato e sradicato i
vigneti, tanto che purtroppo tutta la produzione 2014 è andata perduta. Danila Mongardi, titolare assieme al marito Gabriele dell'azienda, però
non si è abbattuta, anzi a preso spunto per perfezionare ancor di più il suo
progetto di azienda bio sostenibile a 360°.
La bottiglia in questione è una barbera con una macerazione
di 4 mesi in anfora e in un percorso di biodinamica. Forma bordolese
tradizionale sormontata da una bella etichetta disegnata dell’artista Chiara
Renda, mentre il nome del vino è una simpatica parola in dialetto bolognese.
Già alla mescita si è un poco straniti, colore tenue,
scarico. Rosso granato poco intenso e quasi trasparente, ma basta portare il
calice al naso per sentire un bouquet particolarmente fine ed elegante. Spesso
e volentieri gli anforati peccano un po’ di precisione olfattiva, in questo
caso ha tutte le sue cosine al posto giusto, piccoli frutti rossi in
macerazione, fragole e fragoline di bosco lasciate a macerare nel vino, qualche
ciliegia durone, poi arrivano le note floreali di glicine, geranio viola che si
intrecciano a qualche sensazione vegetale che va a mirare nella macchia mediterranea
fresca di primavera. Salvia, menta, sottobosco un po’ di rustica terra a
completare un ventaglio che comunque mi si pone in un elegante equilibrio.
Appena deglutisco il primo sorso vengo colpito dalla
disarmante bevibilità, fresco e acido come una barbera di rispetto, croccante
nella sua snellezza e nel tannino appena sussurrato che non sfigura affatto.
Discretamente lungo e altrettanto persistente durante la quale si apprezza una
importante sapidità di netto tratto minerale. Corpo snello ma scattante, alcool
moderato per una semplice ma intrigante bevuta in un equilibrio empirico di
piacevolezza.
Consiglio di degustare il Dagamò in calici a tulipano di
media grandezza ed ad una temperatura di cantina, 15, 16 gradi sono perfetti.
Io l’ho abbinato ad una coscia di pollo riscaldata, ma se
voi lo abbinate ad un pollo allo spiedo e alla diavola appena cotto secondo me
godrete molto, la carne non troppo saporita e la pelle croccante e speziata si
addice a meraviglia con questo calice. Perfetto anche con il prosciutto crudo,
anche stagionato o saporito come il toscano, con primi piatti a base di ragù di
carni bianche, dal pollo al coniglio. Come secondi piatti un ottima idea può
essere quella di accostarlo ad un filetto di maiale od a qualche fetta di
succulento roastbeef.
Vino ideale da consumarsi durante le cene e grigliate estive
tra amici, dove le bocce scorrono quasi senza sosta di continuità. Come sempre
ricordo che l’abbinamento migliore è quello di condividerne un calice o due con
la persona amatavenerdì 3 aprile 2015
Samodia 2008 Bologna Doc di Giorgio Erioli
E’ sempre un piacere portare in tavola una bottiglia di
questo piccolo produttore dei Colli di Bologna, Giorgio Erioli. L’occasione me
l’ha data l’uscita della sua raccolta di poesia “I sogni della notte ti parleranno” uscita nelle collane dei Minotauri Le Gorgoni di Teseo Editore.
Giorgio conduttore dell’azienda familiare è un poliedrico
personaggio, profondo conoscitore della sua terra, della sua storia che già in
passato aveva trasportato oltre che dentro la bottiglia anche sulla tela tanto
da produrre una personale esposta lo scorso anno a Bologna, diverse citazioni
sui cataloghi d’arte ed esposizioni anche all’estero.
Questo però rimane un blog di vino e non di arte, per cui
rientriamo subito nel tema.
Il territorio di Erioli è Bazzano nella parte alta in cui si
inizia a salire verso Monteveglio, mentre il vino è il Bologna Doc frutto di un
vinaggio di Cabernet Sauvignon in prevalenza e saldo finale di merlot, affinato
per 24 mesi in barrique e tonneau usati prima di affinarsi in bottiglia.
La bottiglia è la classicissima bordolese con un’etichetta
un po’ vintage d’impostazione con il logo aziendale e le scritte rosse su fondo
bianco.
Alla mescita il Samodia è rosso rubino intenso, riflessi granati
a ricordarci i 6 anni di invecchiamento, mentre il profumo è un ampio e
armonico bouquet giocato sulla frutta e sulle spezie. Le prime sensazioni sono
di frutta matura, quasi in confettura, prugna, ciliegia, fragole e lamponi, una
piccola sventagliata di viola e peonia prima di virare deciso ed arrembante sul
terziario di spezie dolci, un po’ di vaniglia, cannella, pepe a gogo qualche
traccia ematica sul finire si avvinghia al misurato vegetale frutto di un mix
di peperone ed erba umida tagliata. Profumi intensi e persistenti molto
armoniosi che cambiano col passare del tempo regalando nuove sensazioni ad ogni
olfazione.
Sono normalmente propenso a dividere i vini in ampi o
verticali, ma la prima sensazione che provo in bocca è la profondità. Entra in
bocca con vigoria, ora prepotente, ora suadente, sensazioni morbide che pongono
la beva in equilibri. Succoso e carnale, croccante e fragrante con un tannino autoritario
ma di una bella eleganza frutto di una trama fitta e vellutata. Le sensazioni gliceriche
sono alte, ma il calore e l’alcool sono ben integrati e contro supportate da
una spalla acida di tutto rispetto, ponendolo al tempo stesso, in questa fase,
ad un equilibrio pressoché ideale, tanto che queste sensazioni calde non risultano
pesanti.
Beva anch’essa piena e goduriosa, lunga e persistente con
una bella coda sapida di tratto minerale.
Consiglio di degustare questo Samodia 2008 in ampi calici a
ballon e con una apertura anticipata di diversi minuti, in modo da far
respirare il vino ed armonizzare i profumi.
Come abbinamento migliore consiglio di degustarlo con un
classico antipasto all’italiana a base di salumi, con primi piatti a base di
paste sfoglie al mattarello con ragù di carni rosse o cacciagione.
Con i secondi piatti trova impego con arrosti e carni alla
griglia, anche carni saporite come cacciagione o ovini. Io l’ho abbinato ad un castrato alla
griglia con insalata, un abbinamento assai riuscito in quanto la corposità e
intensità della carne di pecora era perfetta con la corposità e intensità del
vino.
Regge magnificamente il calice del giorno dopo, anzi, forse
ancor migliore, questa volta abbinato ad una piadina salsiccia e cipolla, ed
anche questa volta l’abbinamento mi ha soddisfatto, il mix tra freschezza e
tannino del vino ben spalleggiavano il vero fast food romagnolo.
Vino perfetto da degustarsi nell’importante pranzo
domenicale o nelle feste in famiglia
ricordando che l’abbinamento migliore è sempre quello di condividerne un
calice con la persona amata
venerdì 20 marzo 2015
Bersot 1933 Pignoletto Emilia IGP 2012 di Gradizzolo
Con molta presunzione, ma un minimo di fondatezza posso dire
di essere un conoscitore del mio territorio, della mia regione, della mia
provincia e dei miei colli, se non altro ci studio, ci leggo mi documento. Sono da sempre un sostenitore del nostro terroir
e di conseguenza pignoletto, e spesso mi trovo a discutere di questo vino. La
cosa è molto più semplice se a suo supporto delle tue parole ti capita un pignoletto del genere. Difatti la
bottiglia di quest’oggi è il Bersot 1933 Pignoletto Emilia IGP 2012 di Gradizzolo.
Gradizzolo è a Monteveglio, nella zona di maggior vocazione,
in mezzo a boschi e vigneti, su terreni argillo calancuosi. La vigna che da
origine a questo vino è del 1933 ed è quella piantata dal nonno di Antonio
Ognibene, oggi titolare di Gradizzolo. Due sole tornature allevate a Guyot e
con assoluto rispetto della natura. Banditi composti chimici, solamente rame e
zolfo e i preparati biodinamici, 500 per il terreno, 501 per la vigna e il sovescio, spesso fatto con favino e
pisello. Vendemmia attenta e manuale, pressatura e vinificazione in bianco ed in
acciaio. Un anno dopo passa in bottiglia, chiarificato solamente con travasi,
qualche mese ed esce in commercio.
La bottiglia è la champagnotta con una bellissima etichetta
semplice, chiara ed elegante che denota l’attenzione per un vino sopra la
media.
Appena versato si evince un bellissimo colore giallo
paglierino, quasi dorato, pieno di luce e luminosità. Il naso è suadente,
evoluto, note dolci di frutta matura, frutta esotica, mango, ananas e papaya, qualcosa di nostrano di media grtandezza e soda, tipo la susina gialla e un po’ d’agrume con un fragrante cedro, poi nello scaldarsi i profumi hanno
una sferzata verso un fresco vegetale. Note armoniose di macchia mediterranea
un mix di salvia timo e maggiorana che s'intreccia alla begoniae ginestra. In bocca entra preciso, lineare e dinamico, succoso e preciso.
Il Bersot come dicevamo è un 2012, quindi già con 2 anni di affinamento in
bottiglia, affinamento che lo ha ammorbidito, difatti ora è in equilibrio pressoché
perfetto. L’ancora grande acidità è mitigata da un corpo di livello ed ad un
accenno tannico che asciuga la beva. Bevuta lunga e persistente, sicuramente
interessante e gradevole, giocata su un’eleganza e finezza che pone questo
pignoletto come uno dei riferimenti della tipologia. Durante la lunga
persistenza si apprezza una striscia di sapore sapida di netto ed affascinante
matrice minerale.
Consiglio di degustare il Bersot ad una temperatura di
14-16°, ed in calici di media grandezza a forma di tulipano.
Come abbinamento è perfetto con la tipica cucina emiliana e
bolognese. Tortellini e passatelli chiaramente in brodo, ma anche la
classicissima zuppa imperiale. Buona l’idea anche con primi piatti a base di
verdure come asparagi o di pesce, in ques’ultimo caso mi indirizzerei verso
pesci bianchi e cotture leggere.
Io l’ho abbinato ad un branzino al sale, abbinamento interessante
in quanto il corpo del vino si sposava egregiamente con le carno sode e non
intrinseche di sapore del pesce.
Consiglio di degustarlo nei classici pranzi domenicali in
famiglia, dove chiacchere e allegria non mancano mai, ma dove anche la cucina
un po’ più elaborata e grassa si addice meglio all’importanza di questo vino.
L’abbinamento migliore rimane quello di condividerne un calice o più con la
persona amata, la conquisterete, o terrete legata a voi, con suadente eleganza
e raffinata classe.
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